Massimo Ragnedda (Tiscali) 30 anni fa si compiva uno dei peggiori e agghiaccianti massacri di sempre: Sabra e Chatila. Migliaia di donne e bambini barbaramente uccisi dai falangisti libanesi con la complicità di Israele che aveva lanciato la sua operazione “Pace in Galilea” invadendo, per la seconda volta, il Libano. Migliaia di palestinesi massacrati con coltelli, accette, pugnali, sventrati, sgozzati, decapitati, violentati. Un orrore senza fine, una carneficina tra le più barbare della storia recente. Era il 16 settembre del 1982 quando le milizie cristiano-falangiste di Elie Hobeika entrano nei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila, alla periferia di Beirut. Il giorno prima l’esercito israeliano, guidato dal generale Arial Sharon, aveva chiuso ermeticamente i campi profughi e messo posti di osservazione e cecchini sui tetti degli edifici vicini. Niente poteva entrare ed uscire senza che gli israeliani lo volessero. Niente poteva uscire: solo il puzzo dei cadaveri fatti a pezzi dai falangisti. Niente poteva uscire: solo l’odore acre della morte, dei corpi sventrati e dei cadaveri mutilati. Niente poteva entrare: solo i falangisti libanesi assetati di sangue e protetti e incitati dagli israeliani. Ebbero gioco facile i carnefici: dinanzi a loro quasi solo donne, anziani e bambini. Pochi giorni prima, infatti, si era firmato un accordo per il quale i fedayin palestinesi avevano accettato di lasciare il Libano in cambio della garanzia di una protezione internazionale sulla popolazione palestinese rimasta. Ma la protezione non ci fu e il massacro ebbe inizio. Persone inermi, indifese e disarmate, sgozzate come animali. Mai uno sterminio così atroce era stato compiuto sotto gli occhi di un “esercito democratico”; mai una tale barbarie era avvenuta sotto la regia di un paese democratico.
Autore: mragnedda Pagina 21 di 34
Massimo Ragnedda (Tiscali) “Tutto è cambiato in meglio. Le persone sono più distese e aperte con americani, francesi e inglesi. Sono benvoluti”. Così si era espresso, qualche settimana prima che fosse ucciso, l’ambasciatore statunitense Chris Stevens a proposito della situazione in Libia. L’ambasciatore Stevens, il primo alto funzionario statunitense ucciso all’estero negli ultimi decenni, si diceva molto ottimista sulla situazione della Libia “liberata” grazie ai bombardamenti della Nato e ai gruppi anti-Gheddafi armati e sostenuti dalla stessa Nato. I fatti lo hanno tristemente smentito e la sua morte deve essere un monito per tutti noi. Una dura lezione che dovrebbe farci capire, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che non si esporta militarmente la democrazia, come si è cercato di fare in Iraq e in Afganistan. Una dura lezione che dovrebbe farci riflettere sul fatto che spetta al popolo scegliere da quale leader deve essere guidato. La morte dell’ambasciatore statunitense, e di altri tre suoi connazionali, deve necessariamente indurci a pensare che la strategia di armare e finanziare gruppi di estremisti e fondamentalisti non solo non funziona ma è anche masochista, perchè una volta destituito il “tiranno” saranno loro a prendere il sopravvento e a scagliarsi contro l’occidente. Come nei peggiori degli incubi, armiamo la mano del nostro assassino.
Massimo Ragnedda (Tiscali) La situazione in Siria precipita ogni giorno di più: violenze settarie, attentati terroristici, infiltrazioni di fondamentalisti, repressione del governo. Il vero rischio è che la situazione precipiti in una guerra religiosa e si estenda a macchia di leopardo ovunque in Medio Oriente. Qualcosa di simile è già emersa in Libano con scontri tra sciiti e sunniti, in Giordania la situazione è incandescente, in Baharain la rivolta popolare sciita è repressa nel sangue dalla monarchia assoluta filo saudita e sunnita.
La rivolta contro il governo Assad dura da 18 mesi oramai, segno che Assad gode ancora di una certa popolarità e può ancora contare su una parte del suo esercito, nonostante l’intervento dell’Occidente che paga i dissidenti per abbandonare il governo o l’esercito. Ricordo che in Egitto l’inossidabile Mubarak è caduto in meno di dieci giorni; in Tunisia la rivolta popolare ha deposto il regime in pochissimo tempo e in Libia la rivolta contro l’astuto e temibile Gheddafi è durata pochissimo, eppure era molto armato, aveva un esercito di mercenari e armi in abbondanza. In Siria si combatte da 18 mesi e la rivolta non accenna a decollare. Mancanza di logistica e armi oppure la rivolta non ha presa popolare?
Massimo Ragnedda (Tiscali) Quanta ipocrisia dietro il conflitto siriano. E quanta malafede nella disinformazione. In Siria è in atto una guerra civile, molto delicata e che travalica i confini nazionali. È una guerra tra interessi geostrategici e fazioni opposte, sostenute e foraggiate da grandi potenze per motivi contrapposti. Quella in Siria è una guerra per ridisegnare il Medio Oriente, per estendere i propri interessi e la propria egemonia, per controllare confini e risorse, per conquistare mercati e alleati. Basta con tutta questa ipocrisia occidentale dei diritti umani. Parliamoci chiaro senza prenderci in giro: alle potenze occidentali (non dico all’opinione pubblica, ma ai governi piegati agli interessi delle multinazionali) non interessa un fico secco dei diritti umani, così come non interessano alla Cina e alla Russia, ma sono solo un pretesto usato per coprire le reali ragioni che spingono gli stati ad entrare in guerra. Altrimenti non si capirebbe come si possa condannare la Siria e salvare l’Arabia Saudita (probabilmente una delle peggiori dittature al mondo), salvare la crudele repressione del Baharain, giustificare il Qatar e l’aver tollerato per 30 anni Mubarak. Non sto difendendo Assad e suoi crimini, ma sono nauseato dall’ipocrisia di chi parla di violazione dei diritti civili e della necessità di un “intervento umanitario” – vecchio slogan sempre buono nel mondo occidentale per giustificare le peggiori nefandezze – della comunità internazionale, intendo per essa l’Occidente e la Nato.
Massimo Ragnedda, Las redes sociales y la tutela de la privacidad. Cuando la privacidad no se contempla como un derecho, in Novática, Monografía, “Privacidad y nuevas tecnologìas”, Revista decana de la prensa informática española, Núm. 217 (mayo-junio 2012).
Resumen: En las Redes Sociales se ceden de manera gratuita y sin pudor datos de carácter privado que hace tiempo habríamos custodiado con celo. En una encuesta que he realizado entre 1.047 estudiantes de la Universidad de Sassari, se observa que suelen existir distintas maneras de gestionar la privacidad: despreocupación en la red e hiperproteccionismo en la vida real. Los estudiantes parecen infravalorar el peligro que implica la cesión de datos, ya que descuidan el fenómeno de la “data-vigilancia”. De hecho, el 86% afirma que el principal visitante de su perfil son sus amigos, y por eso no se preocupan de ocultar informaciones que a los amigos no se le esconderían. Este hecho hace que la red sea más familiar e íntima y al mismo tiempo baja las defensas culturales ante una eventual intrusión de extraños en el mundo personal. Sólo el 25,9% afirma leer habitualmente o siempre la política de privacidad antes de registrarse en una página web y sólo el 34,9% se da de alta exclusivamente en páginas que poseen este tipo de políticas. Los encuestados también parecen ignorar el papel de las agencias de marketing, encargadas de escrutar, agrupar y unir los datos de los usuarios con el objetivo de construir perfiles lo más ajustados posibles. De hecho, sólo el 3% de la muestra considera que su perfil puede ser visitado por extraños.
Palabras clave: Data-vigilancia, perfil electrónico, privacidad, red social, vigilancia.
Come gli adolescenti usano Internet e i Social Network? Quali differenze rispetto all’uso dei media “tradizionali”, come televisione e radio? Per cercare di dare una risposta, seppur parziale, a queste domande, è stata portata avanti una ricerca con gli studenti delle scuole medie della città di Sassari, di età compresa dagli 11 ai 14 anni. Il questionario è stato compilato da 517 studenti (di cui 10 sono stati scartati perché inattendibili o incompleti). I dati che qui di seguito si riportano sono i primi parziali risultati di questa ricerca.
de Massimo Ragnedda ¿Por qué no nos rebelamos contra la dictadura financiera? ¿Por qué no se hace la revolución? En los años Sesenta la plaza se llenaba por mucho menos y se pedía a gritos un cambio radical del sistema, una revolución. Ahora se calla. Contemplamos impasibles, desmotivados, sin energía el lento fluir de los acontecimientos. Se asiste como espectadores impasibles a una tragedia que nos concierne: desocupación por las nubes, despidos en masa, precariedad de por vida. Nos quitan los derechos esenciales y las grandes conquistas sociales obtenidas tras años de lucha: el derecho al trabajo, el derecho a la sanidad y el derecho al estudio. Todos cuestionados porque existe la crisis, fácil pretexto para canalizar recursos públicos en manos de pocos, de la élite económica que gobierna el mundo. Aumenta la diferencia entre ricos y pobres, así como la desigualdad social entre el que tiene y el que nunca tendrá. Nos han robado el futuro, la esperanza y las ganas de soñar un futuro mejor. La crisis se convierte en un mantra para explicar el saqueo de nuestros recursos y de nuestros derechos.
di Massimo Ragnedda (Tiscali). Perché non ci si ribella contro la dittatura della finanza? Perché non si fa la rivoluzione? Negli anni Sessanta si scendeva in piazza per molto meno e si chiedeva a gran voce un cambiamento radicale del sistema, una rivoluzione appunto. Ora si tace. Si guarda impassibili, demotivati, senza energia il lento defluire degli eventi. Si assiste come spettatori impassibili dinanzi ad una tragedia che ci coinvolge: disoccupazione alle stelle, licenziamenti di massa, precariato a vita. Ci tolgono i diritti essenziali e le grandi conquiste sociali ottenute dopo una stagione di lotta: il diritto al lavoro, il diritto alla sanità e il diritto allo studio. Tutto questo è messo in discussione perché c’è la crisi, facile pretesto per convogliare risorse pubbliche nella mani dei pochi, dell’élite economica che governa il mondo. Aumenta il gap tra ricchi e poveri e aumenta la disuguaglianza sociale tra chi ha e chi mai avrà. Ci hanno rubato il futuro, la speranza e la voglia di sognare un futuro migliore. C’è la crisi: un mantra per spiegare la rapina delle nostre risorse e dei nostri diritti.
Venerdì 27 Luglio 2012, il Dipartimento di Scienze Politiche, Scienze della Comunicazione e Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Sassari ospita, il seminario internazionale “Living in Surveillance Society“. L’incontro, organizzato da Massimo Ragnedda dell’Università di Sassari in collaborazione con il gruppo di ricerca internazionale Living in Surveillance Societies finanziato dal COST (European Cooperation in Science and Technology) con l’indirizzo in Scienze della Governance e dei Sistemi Complessi della Scuola di Dottorato in Scienze Sociali dell’Università di Sassari, vede la partecipazione di professori e studiosi inglesi, israeliani, olandesi, belgi, spagnoli e italiani. All’interno del seminario interverranno i corsisti del Dottorato che discuteranno i loro papers coordinati da Prof. Clive Norris, direttore del Dipartimento di Sociologia dell’Università di Sheffield (UK).
Massimo Ragnedda (Tiscali) Non prendiamoci in giro e parliamoci chiaro: il governo Monti è un disastro totale. E lo dico sulla base dei dati, come si dovrebbe cercare di fare. Solo La 7 di Mentana lo difende a spada tratta, come Fede faceva con Berlusconi, con buona pace dell’obiettività giornalistica. Ci sono dati che non si possono nascondere e di questo parlerò. Il resto è mera propaganda e faziosità giornalistica, quel male incurabile che ha tenuto in piedi B. per quasi 20 anni. Per valutare il governo Monti, dopo quasi 9 mesi di mandato, mi si consenta una metafora: se chiamo un tecnico per ripararmi un tubo che perde acqua e dopo il suo costosissimo intervento il tubo non solo continua a perdere, ma il buco si è trasformato in una voragine, devo prendere atto che il tecnico è un incompetente. ovvero incapace, a causa dell’impreparazione o dell’inesperienza, a svolgere bene la propria attività. A meno che, mi si consenta il dubbio malizioso, la voragine non sia stata volutamente creata per spillarmi un altro po’ di quattrini ed allora in questo caso il tecnico è in malafede: valutate voi. Fuor di metafora: a Novembre 2011, il governo tecnico di Mario Monti è stato “chiamato” con un mandato preciso: ridurre lo spread, ridurre il debito pubblico e generare crescita. Ora possiamo tirare le somme.