In questa foto c’è tutta l’ipocrisia occidentale. Kerry, ora ministro degli esteri del pacifista Obama, dichiara guerra alla Siria senza aspettare le prove degli ispettori e senza il mandato dell’ONU. Lo stesso Kerry quattro anni fa esaltava le capacità da statista e l’importanza per la democrazia dell’amico Assad. Così fu per Saddam: nel 1988 gli Stati Uniti coprirono l’attacco chimico di Saddam che uccise più di 5000 persone, nel nord dell’Iraq. In quegli anni Saddam era di casa negli Stati Uniti perché serviva i loro interessi. Ma un dittatore non è un diamante: non è per sempre. E così, dopo qualche anno, Saddam fu dichiarato nemico e dunque rimosso. Stessa cosa con il colonnello Gheddafi: amico dell’Occidente (tranne qualche scaramuccia con gli USA), invitato ovunque nel mondo e dopo qualche mese spazzato via, consegnando la Libia al caos più totale e preda di bande di terroristi islamici. Pensate a tutti i dittatori delle monarchie arabe: sin quando saranno utili agli Stati Uniti, i loro crimini e il loro disprezzo per i diritti umani (pensate all’Arabia Saudita, una delle peggiori dittature al mondo) saranno un dettaglio che non comparirà nei nostri giornali. Quando, invece, i dittatori e monarchi non serviranno più agli interessi statunitensi diventeranno i mostri da sbattere in prima pagina, da odiare e, come naturale conseguenza, da bombardare. Ora è il turno della Siria.
Autore: mragnedda Pagina 17 di 34
Massimo Ragnedda (Tiscali). l filosofo ed europarlamentare Gianni Vattimo ha attirato su di sé un vespaio di polemiche per aver difeso le ragioni dei no TAV. Prof. Vattimo ha difeso chi protesta contro la militarizzazione di un’intera area e contro la distruzione di una valle per la realizzazione di un’inutile, dannosa e costosissima opera pubblica. Lo Stato (o meglio alcuni dirigenti di partito) non sente le ragioni della protesta, non dialoga con i cittadini che vivono nel territorio e si ostina a costruire un’opera folle, dannosa e senza nessuna utilità per la collettività. La TAV – inutile far finta di non vedere – è un’opera “finanziaria” più che una infrastruttura, la cui unica utilità è far “girare” i soldi dei contribuenti italiani e dirottarli verso i soliti noti che, come parassiti, si arricchiscono sulle spalle della collettività. Questa opera faraonica sarà pronta tra 20/25 anni (conoscendo l’Italia possiamo pensare che i tempi si allungheranno ulteriormente e che i prezzi saranno una volta di più gonfiati), quando sia le merci che il modo di trasportarle (unitamente al trasporto di persone) saranno completamente cambiati. Hanno ragione gli abitanti della Val di Susa a protestare perché è la loro valle che verrà stravolta e deturpata, perché ci sono rischi per la salute dei cittadini e perché tutto il territorio soffrirebbe. Ha ragione chi, ovunque in Italia, protesta per questa inutile opera perché la vede come uno sperpero di risorse pubbliche che potrebbero essere destinate a finanziarie piccole opere molto più vantaggiose, meno dannose e capaci di dare un po’ di respiro alle piccole e medie imprese sparse in Italia. Ha ragione Vattimo quando sostiene che «la vera violenza è quella dello Stato che militarizza il territorio per realizzare un’opera inutile»: uno Stato che militarizza un’area e va contro gli interessi dei cittadini, distruggendo un intero territorio e mettendo a rischio la salute pubblica solo per far arricchire qualche imprenditore amico, è uno Stato violento.
Massimo Ragnedda (Tiscali) “Una soluzione per Silvio o ci sarà la guerra civile”. Le parole eversive del pasionario Bondi, Sandro Bondi, suonano in tutta la loro gravità in questa pazza estate italiana. Bondi evoca una guerra civile se un pregiudicato che ha truffato il fisco, non venisse graziato da Napolitano. Il PDL ricatta il Colle, ricatta il Parlamento, ricatta l’Italia. Dopo 20 anni suona sempre la stessa musica, le stesse note, le stesse parole. Prima gli interessi di un pregiudicato e poi quelli degli italiani. Non importa se la disoccupazione aumenta, se ogni giorno piccoli commercianti e piccoli artigiani sono costretti a chiudere sommersi dal peso del fisco (e c’è invece chi il fisco lo froda), non importa se il servizio sanitario nazionale arranca, se i giovani sono costretti ad emigrare, se la corruzione dilaga e se la povertà è in preoccupante aumento. Tutto questo non importa. Dopo 20 anni siamo ancora qui a parlare dei guai giudiziari di un pregiudicato, condannato in via definitiva per aver truffato il fisco: un reato tanto grave quanto odioso. I deputati e senatori PDL fanno quadrato intorno al loro capo perché sanno bene che senza di lui e senza le sue televisioni e giornali non esisterebbero. Tra i vari problemi del porcellum, voluto appunto dal pregiudicato di Arcore, vi è il fatto che deputati e senatori sono scelti dai vertici del partito e non dagli elettori, e nel PDL sono “scelti” direttamente da lui in base alla loro fedeltà al capo. È evidente che i parlamentari PDL rispondono a chi li ha nominati (il pregiudicato) e non a chi li ha eletti (gli italiani). Si capisce allora il coro unanime di parlamentari che senza il loro capo non andrebbero da nessuna parte o più semplicemente non esisterebbero. Stessa cosa i giornali e telegiornali del boss: è evidente che tutti in coro ripetano che è innocente (nonostante due gradi di giudizio e la Cassazione). In fondo, se ci pensiamo bene, sono pagati anche per questo. È normale che i vari Ghedini, Longo e la sfilza di avvocati del pregiudicato dichiarino che lui è innocente: è il loro lavoro e sono pagati per questo.
Massimo Ragnedda (Tiscali) Enrico Letta, capo della coalizione PD-PDL-Scelta Civica, alza la voce con la Lega, minaccia una guerra totale con Maroni e giudica inaccettabili le parole di Calderoli. Io non voglio neanche commentare le parole del vicepresidente del Senato, perché si commentano da sole e perché ne parlano già tutti. È, casomai, sull’ipocrisia dei dirigenti del PD che voglio dire la mia. Letta alza la voce con la Lega semplicemente perché la Lega non ha accettato (per ragioni strumentali e di opportunità politica) di stare al governo con loro, perferendo l’opposizione e qualche poltrona in più nelle commissioni parlamentari. Letta alza la voce con la Lega dimenticandosi di essere al governo con un condannato in primo grado a 7 anni per prostituzione minorile e concussione e condannato a 4 anni in secondo grado per frode fiscale. Letta, prima di ergersi a paladino dell’antirazzismo, dovrebbe ricordarsi che è al governo con chi ha definito Obama “abbronzato” (insulto fortemente razzista), che ha più volte sostenuto che Mussolini mandava gli ebrei in vacanza e ha definito Milano una città africana perché, a suo dire, ci sono troppi immigrati nelle nostre città.
Massimo Ragnedda (Tiscali) Ogni famiglia, soprattutto in questo momento di gravi crisi economica, sa benissimo che per far quadrare il bilancio familiare si deve dare spazio alle priorità e tagliare le cose superflue e non necessarie. Se una cosa superflua una famiglia non può permettersela, la si elimina, perchè le priorità sono altre. È uno dei principi basilari che ogni genitore conosce benissimo. Principio che governo ed esponenti della maggioranza trasversale, sotto l’egidia del presidente della Repubblica, sembrano non conoscere. In questo momento di gravissima crisi economica, mentre moltissimi piccoli artigiani e piccoli commercianti sono sommersi di tasse e non riescono a far fronte alle pretese dello Stato, il governo e la maggioranza PD, PDL e Scelta Civica, pensano di usare decine di miliardi di euro di soldi pubblici per acquistare inutili, difettosi e superflui aerei da guerra. Ma le priorità, come tutti sanno, sono altre. Qualsiasi buon padre di famiglia, trovandosi al governo del paese, avrebbe applicato il principio delle priorità e lo avrebbe fatto perché ama la sua famiglia. Qualsiasi madre dovendo governare il paese avrebbe capito subito che le priorità sono bene altre. Lo avrebbero fatto non per fare un dispetto al figlio che pretende il giocattolo difettoso e inutile, ma perchè sa benissimo che mangiare, garantirgli un’istruzione e delle cure mediche, in una sanità sempre più privata, sono le priorità.
Massimo Ragnedda (Tiscali) Sono passati 12 anni da quando gli Stati Uniti, assieme ad una coalizione internazionale compresa l’Italia (dal 2004), hanno lanciato una guerra contro l’Afghanistan. Sono passati 12 lunghissimi anni e nel frattempo decine di migliaia di persone hanno perso la vita, decine di migliaia di feriti e un’intera generazione di bambini rimarrà per sempre traumatizzata dalla violenza della guerra. Sono passati 12 anni e quasi 8000 soldati della coalizione internazionale impegnata a contrastare il terrorismo hanno perso la vita. Tra loro anche 53 militari italiani, morti mentre combattevano i “terroristi” che 30 anni prima gli Stati Uniti avevano creato, armato e allevato per combattere l’Unione Sovietica. È stato calcolato che sinora gli Stati Uniti tra Iraq e Afghanistan abbiano speso 4 trilioni di dollari (4 seguito da 12 zero, per intederci) e all’Italia la missione costi all’incirca 100 milioni di euro al mese, ovvero più di un miliardo di euro all’anno. Soldi che noi paghiamo con le tasse, quando facciamo benzina, quando compriamo una marca da bollo, quando facciamo la denuncia dei redditi. Soldi che potrebbero essere destinati a creare lavoro e occupazione, costruire nuovi ospedali e scuole più sicure e che invece il governo italiano, senza differenza di colore, destina alla guerra.
The Digital Divide. The Internet and Social Inequality in International Perspective, Edited by Massimo Ragnedda and Glenn W. Muschert, Routledge, 2013.
Published 5th June 2013 by Routledge – 324 pages
Series: Routledge Advances in Sociology
This book provides an in-depth comparative analysis of inequality and the stratification of the digital sphere.
Grounded in classical sociological theories of inequality, as well as empirical evidence, this book defines ‘the digital divide’ as the unequal access and utility of internet communications technologies and explores how it has the potential to replicate existing social inequalities, as well as create new forms of stratification. The Digital Divide examines how various demographic and socio-economic factors including income, education, age and gender, as well as infrastructure, products and services affect how the internet is used and accessed. Comprised of six parts, the first section examines theories of the digital divide, and then looks in turn at:
- Highly developed nations and regions (including the USA, the EU and Japan);
- Emerging large powers (Brazil, China, India, Russia);
- Eastern European countries (Estonia, Romania, Serbia);
- Arab and Middle Eastern nations (Egypt, Iran, Israel);
- Under-studied areas (East and Central Asia, Latin America, and sub-Saharan Africa).
Providingan interwoven analysis of the international inequalities in internet usage and access, this important work offers a comprehensive approach to studying the digital divide around the globe. It is an important resource for academic and students in sociology, social policy, communication studies, media studies and all those interested in the questions and issues around social inequality.
Read and download the Introduction and table of content
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Massimo Ragnedda (Tiscali) La morte di Giuliano Ibrahim Delnevo, uno studente genevose di 24 anni, da 4 anni convertitosi all’Islam, deve farci riflettere. Giuliano è morto in Siria mentre combatteva al fianco dei “ribelli” sunniti. È il primo italiano ad essere stato identificato, ma probabilmente non è l’unico a combattere contro Assad (si parla di una ventina di giovani immigrati di fede islamica partiti per la volta di Damasco, per prendere parte nella guerra civile che insanguina la Siria). Di certo sono almeno 600 gli europei che combattono in Siria, assieme a migliaia di altri stranieri (ceceni, sauditi, egiziani, libici, eccetera). Dobbiamo chiederci cosa possa spingere un ragazzo italiano di 24 anni ad andare a combattere in Siria. Cosa spinge centinaia e centinaia di europei a partire per la Siria e lottare al fianco di jiahdisti? Per quale causa combattono? Ma sopratutto, che ne sarà di loro dopo la fine della guerra? È sempre difficile, se non a rischio di semplificazioni, capire cosa possa spingere un ragazzo a combattere e morire lontano da casa per una causa “superiore”. È difficile dire perché un ragazzo abbracci la versione più radicale di una religione e sia pronto a sacrificarsi per essa.
Massimo Ragnedda (Tiscali) L’esercito regolare siriano, dopo tre settimane di duri combattimenti, ha riconquistato la città strategica di al Qusayr, anche grazie all’apporto decisivo degli Hezbollah, le milizie sciite libanesi. Al Qusayr è una città di 30 mila abitanti (o meglio era una città di 30 mila abitanti, ora rimangono macerie e polvere), al confine con il Libano: una città simbolica e strategica per governo e oppositori, perché da una parte è lo snodo verso la costa mediterranea roccaforta degli alawiti (la religione di Assad) e dove ha sede la marina russa a Tartus, e dall’altra è lo snodo strategico per i ribelli anti-Assad. Infatti è proprio da qui che passano le armi saudite e del Qatar e sopratutto jihadisti stranieri che vanno la guerra santa contro le truppe di Assad. Tra di loro non troviamo solo libici, ceceni, turchi, tunisini, ma anche europei. Gilles de Kerchove, il capo dell’anti-terrorismo dell’Unione Europea, ha parlato di circa 500 europei (hanno passaporto europeo e sono cittadini europei a tutti gli effetti) che stanno ora combattendo con le forze ribelli in Siria contro il regime di Bashar al-Assad. Terroristi che oggi l’Occidente arma e che domani si ritroverà in casa: come fecero gli Stati Uniti con i talebani negli anni ottanta. Allevarono il nemico, lo armarono, lo addestrarono per combattere l’Unione Sovietica e poi se li sono ritrovati a casa. Una strategia tanto folle quanto pericolosa.

RESUMEN: El fenómeno de la violencia de género se ha convertido en un problema público a partir de los años ochenta del siglo pasado, dejando de ser un aspecto privado de la vida familiar. La violencia de género, especialmente contra las mujeres, hoy por hoy es un problema grave; no solo es cuestión de equidad de género, sino que también es un asunto de importancia para la salud pública. La violencia contra las mujeres en la familia ha sido muy estudiada por diferentes autores, pero no ha sido analizada a profundidad en los medios de comunicación masiva. Actualmente la imagen de la mujer es manejada cada vez más seductora y sexualmente, a menudo reducida sólo a su cuerpo y vulgarizada al punto de volverse en lo que hace tiempo se hubiera definido como pornografía. El objetivo principal de este trabajo es poner de relieve el papel de los medios de comunicación en la creación de un contexto sociocultural donde prospera la violencia contra la mujer.
ABSTRACT: The phenomenon of gender violence has become a public issue ever since the eighties last century, no longer being a private aspect of family life. Gender violence, especially against women, is a serious problem today. Not only is it a question of gender equality, but also one of importance for public-sector healthcare. Violence against women within the family has been amply studied by different authors, but has not been analyzed in-depth in the mass media. At present, the image of women is handled increasingly seductive and sexual, often reduced to her body and vulgarized to the point of what would have been defined, some time ago, as pornography. The main objective of this study is to highlight the role of mass media in the creation of a socio-cultural context where violence against women prospers.